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di Georges Bizet

Direttore: Daniel Baremboim (2009), Gustavo Dudamel (2010), Massimo Zanetti (2015)

Regia: Emma Dante

Scene: Richard Peduzzi

Costumi: Emma Dante

Luci: Dominique Bruguière

Movimenti coreografici: Manuela Lo Sicco

Cast

Don José: José Cura – Francesco Meli

Escamillo: Vito Priante  – Artur Ruciński

Le Dancaïre: Michal Partyka

Le Remendado: Fabrizio Paesano

Moralès: Alessandro Luongo

Zuniga: Gabriele Sagona

Carmen: Elīna Garanča – Anita Rachvelishvili

Micaëla: Elena Mosuc  – Nino Machaidze

Frasquita: Sofia Mchedlishvili

Mercédès: Hanna Hipp

Une marchande d’orange: Alessandra Fratelli

Un bohemien: Alberto M. Rota

Lillas Pastia: Rémi Boissy

Un guide: Carmine Maringola

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala

Coro di Voci Bianche e Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala

Produzione Teatro alla Scala

 

Carmen senza vergogna (note di regia)

Emma Dante

In una piazza del sud, con una fontana al centro, i muri si sgretolano in polvere rossiccia dando la sensazione che da un momento all’altro potrebbero crollare del tutto; tra queste mura che segnano i confini di un paese dell’entroterra si sviluppa la trama di una storia popolare, vissuta a cielo aperto, sotto gli occhi di poveracci, truffaldini, operaie, militari e ragazzini con le pezze al culo. Una storia con pochi segreti dove tutto è esposto in maniera estrema e grottesca ma nello stesso tempo intima e delicata. Una purezza di fondo c’è nel gioco di seduzione che una zingara mette in atto, una purezza che è tipica degli animali e dei bambini, nei cui comportamenti s’intravede qualcosa di angelico. Perché non esiste vergogna in Carmen, non esiste volgarità. Essere Carmen significa trasgredire le regole; allontanarsi dal moralismo e dall’ipocrisia di certi ambienti per bene dove l’orrore c’è, ma è ben custodito lontano dalla vista. Essere Carmen significa provare l’ebbrezza della libertà, reggere il sacrificio della scelta, sentire il peso del libero arbitrio e di conseguenza mettere in discussione l’esistenza di Dio.
Al cospetto di un paese fortemente influenzato dalla chiesa cattolica vive una Carmen laica, in assoluta autonomia e indipendenza, nonostante l’arre- do sacro che la circonda tenti continuamente di convertirla: la croce che al- l’occorrenza viene piantata dai due chierichetti, il parroco sempre pronto a dir messa, il vestito da sposa di Micaëla come simbolo della sua verginità e del suo desiderio di matrimonio, l’amitto-bavaglio delle recluse-operaie co- strette a vivere ammassate dentro una fabbrica monastica, il grande pannello degli ex voto (gambe, braccia, polmoni, reni, teste e cuori di cera) per propiziare una buona riuscita della corrida, a cui Escamillo appende un braccio pregando che nello scontro col toro il suo corpo resti intatto, e infine il carro funebre spinto dai due incappucciati col corteo di cinque prefiche velate di nero pronte a catturare l’anima.
Carmen va spavalda incontro alla morte e se ne frega di finire tra le fiamme dell’inferno. Come le eroine greche, ribelle per natura, non resta nei ranghi più di mezza giornata. Diserta. Si oppone alle regole. Vive raminga per vocazione e anche se si dà a chi dice di amare realmente non è mai di nessuno. La musica “mediterranea” di Carmen, citando Nietzsche, spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, generando appunto il mito, e precisamente il mito tragico.
Gli scippi, i piccoli crimini, il pestaggio dei ladruncoli, lo sfruttamento delle donne operaie e dei ragazzini fanno parte di un mondo, come quello descritto da Mérimée, in cui la disperazione, il degrado nascono dalla necessità di elaborare il concetto del tragico.
Negli ambienti più degradati, nei bassifondi, c’è una passione esplosiva e in- controllata, un amore inteso come fatalità: innocente, crudele e perciò naturale! 
Carmen fa paura. A tutti. Alla chiesa e alla società. E anziché eroina mitica le viene offerto il posto di martire contemporanea di un paese bigotto.
Non credo in una lettura realistica di quest’opera, nella misura in cui attraverso il realismo si immagini un’imitazione della realtà. Credo invece in un’interpretazione della realtà dove il paesaggio è macchiato da qualche pennellata surreale.
Il popolo che frequenta Carmen si annida nelle intercapedini di un paese verticale dove i blocchi di tufo e mattoni tendono a compenetrarsi con altri blocchi di tufo e mattoni, dove pozzi di luce, piazzole interne, finestre mura- te e crepe ai muri, sono il recinto dentro il quale si vive e si muore. È impossibile uscirne a meno che il carro vuoto non entri a prendere il predestinato. Il carro vuoto è il nostro sguardo che s’intrufola nella storia e dopo un viaggio lungo e ammaliante porta Carmen via con sé. “Nell’udirla si diventa noi stessi un capolavoro”, scrive ancora Nietzsche.
L’opera si apre con il corteo del carro vuoto che simbolicamente attende di ricongiungersi a Carmen, il cui destino è segnato sin dall’inizio. Il carro è rap- presentato come una bara del sud e le prefiche, a ogni piè sospinto, piango- no a comando. La processione ritornerà in tutti gli atti della tragedia, presagio di morte, finché alla fine del quarto atto, sul carro, il corpo esanime di Carmen verrà involto in un manto sacro.
Troppo colore disturba e rischia di allontanare lo sguardo. Il grigio, d’altro canto, addormenta. Deve esistere una gradazione di mezzo che non sia troppo violenta per la nostra sensibilità e non troppo delicata per la nostra giusta dose di cinismo. Il fatto di cronaca rivelato in quest’opera accattiva, eccita… qualsiasi amato vorrebbe uccidere l’amata, e viceversa, se non altro per dimostrare il suo amore. L’eros e la morte sono amanti, si seducono, s’inseguono costantemente. Nel quarto atto Carmen punterà a Don José un coltello intimandolo di lasciarla passare ma quando lui riuscirà a disarmarla, ripuntandoglielo a sua volta, lei stessa, ormai spacciata, si spingerà la lama dentro le viscere. Come una penetrazione finale e clamorosa. Con il sacrificio di sé stessa fino alla morte. “ Jamais Carmen ne cèdera! Libre elle est née et libre elle mourra!”

Qualche appunto sui personaggi

Il mondo fanatico e conservatore in cui vivono i protagonisti dell’opera è in totale contrapposizione con quello di Carmen: mentre Micaëla è buona, devota, giudiziosa, Carmen è scorretta e impudica. Le due donne sono agli antipodi ma entrambe necessarie all’onesto brigadiere: Micaëla incarna la madre, Carmen l’amante.
Tutti i personaggi hanno sempre un seguito, non riescono a star da soli, accompagnati dalle proiezioni dei loro desideri e rimpianti come Linus dall’inseparabile coperta. Al seguito di Micaëla c’è un prete, guida spirituale, che nel primo atto celebrerà come in sogno le sue nozze con Don José. Subito dopo per Micaëla comincerà l’incubo: a ogni ingresso si farà sempre più vecchia e nel terzo atto il suo abito da sposa sarà logoro e ingiallito come simbolo del sogno infranto. Il prete l’accompagnerà, vecchia e malata, dal figlio-amato Don José.
Escamillo, dal terzo braccio fuso iconograficamente con il costume da torero come un accessorio eterno, avrà sempre un corteo mascherato che erige i suoi trofei: due gigantografie sanguinarie di tori ammazzati. Il suo terzo braccio rappresenta destrezza e virilità come le ali ai piedi di Hermes simboleggiano velocità.
Durante la marcia, i militari, al posto dello zaino, si tengono aggrappato il proprio doppio rimasto bambino. Al cambio di guardia si lasceranno scivola- re dalle spalle il sé fanciullo per rimarcare simbolicamente il passaggio dal- l’infanzia all’età adulta. Eccolo correre e far capriole il piccolo esercito della propria fanciullezza!
Le sigaraie fanno il loro ingresso nella piazza con ordine e rigore come se uscissero da un convento. Nell’ora di libertà, lasciano la fabbrica in fila con un fiore in bocca che gli nasconde la faccia, indossando un grembiule che sa più di divisa monacale. Con incedere solenne vanno alla fontana e aprono le vesti per rinfrescare i loro corpi stremati. Questo gesto piuttosto che sedurci, ci farà pietà!
Carmen è circondata dai bambini come una mucca che attira le mosche. Quando è operaia, sfrutta l’occasione per rivendersi sottobanco i sigari che ruba in fabbrica, nascondendoli addosso ai bambini. I soldati li corrompe regalandogli i sigari, ballando e cantando per loro. In cambio di questo e altri favori lei e i suoi compagni ricevono il silenzioso beneplacito delle forze del- l’ordine. Sempre sarà accompagnata da cinque bambine vestite come lei, che si muovono come lei, che sono le sue piccole Carmen della spensieratezza. L’unico a non avere seguito è Don José. Solitario e introverso. Distante da tutto. Come una fortezza inaccessibile circondata dal deserto. Quali segreti nasconde? Quale fascino scaturisce dal suo essere puro e incontaminato? Carmen lo espugna, diventando sentinella del suo cuore. Allora, in lui qual- cosa non funziona più. Il virus gli viene iniettato e Carmen dentro la sua testa, come una Minerva che non vuole uscire, determina la distruzione. Ma prima del crollo, il brigadiere, in uno slancio disperato, parte all’assalto da solo contro un’intera armata: l’amore.


 

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