Ci sono due Emma Dante, nonostante Emma sia un personaggio invero unico nel quadro del teatro italiano a cavallo di secolo e di millennio. Le due Emma a volte si incontrano e a volte entrano in conflitto, riaffermando una schizofrenia che è di questi anni e del nostro teatro. La prima è l’Emma regista: si ostina a credere ancora nel “teatro di regia”, ha fatto l’accademia, e si apparenta in qualche modo ai registi migliori di questi anni, portando in questo campo molta novità ma accettando la strada da quelli stabilita (e dai critici, e dai burocrati, e dai soloni del teatro, insomma dall’establishment cultural-mediatico-politico formato da pochi nomi ma imponenti, prepotenti, invadenti e tanto più convinti di sé quanto meno riescono a capire i nuovi tempi e a sapere, in essi, elaborare e darsi un progetto, che è cosa difficilissima per tutti).

(C’è anche una terza Emma, l’attrice, ma se pensiamo a Emma Dante non pensiamo all’attrice, Emma non si definisce certo per questo.)

Confesso un notevole fastidio per gli esiti attuali del “teatro di regia”, confuso e perlopiù insopportabile anche quando a farlo sono le “grandi firme” o gli ex giovani che vorrebbero essere registi-autori reinventando il teatro per il tramite di una propria visione del teatro, che pensano originale e profonda. Esiti scarsi, banali e di copia, presuntuosi o pretestuosi nel loro rimescolamento poeticistico e non poetico. E’ difficile essere poeti, se non si capiscono il tempo e i suoi bisogni e se non si ha una vena forte da sfruttare, se non si ha un’identità in cui talento e progetto riescano a compenetrarsi. Non è poeta chi vuole, neanche se ci sono i critici a farglielo credere: le opinioni dei critici hanno le gambe corte, e almeno in arte la differenza alla fine vince, anche se rischia o muore di fame. Ma qui il discorso si farebbe lungo, perché implica una ridiscussione complessiva che nessuno ha voglia di fare, barcamenandosi quotidianiamente per restare a galla o per il gusto perverso del potere di decidere chi deve restare a galla. Torniamo dunque al lavoro di Emma Dante e a sostenere subito e con la massima decisione una predilezione per la sua opera poetica più che per la (degnissima, ma dentro la scia che si è detto) l’opera registica.

A Emma regista dobbiamo molto, per esempio una scuola di attori che è oggi tra le rarissime in cui vere donne e veri uomini di teatro sanno assistere e proteggere la sana crescita di attori veri (e a me vengono in mente pochi nomi, Martinelli, Civica, molto tempo fa Carlo Cecchi, molto tempo fa Luca Ronconi; e chi altro?). Ma le sue “regie” sono decisamente inferiori alle sue “poesie”. E la sua poesia straordinaria ed eccezionale, bellissima e straziante, è finora quella della Trilogia di Palermo. Ovvero mPalermu, Carnezzeria e Vita mia. Questa poesia è di tipo particolare, perché è cresciuta nell’humus di una cultura che affonda le sue radici nella storia senza storia, reiterata e ossessiva, di un sottoproletariato che è stato ed è isola nell’isola (Palermo) nell’isola (Sicilia), e in un vocabolario di sofferenza e di umiliazione, di speranze deluse, di rivolta tentata e fallita, un gruppo sociale continuamente respinto nel precipizio della distruzione e dell’autodistruzione, nel moralmente inestricabile e spesso nel facchinaggio e nella manovalanza per organizzazioni potenti e criminali. Questo sottoproletariato ha vissuto la “mutazione” con maggior ritardo che altrove, non ha trovato riscatto se non nell’adesione a un ordine clientelare e/o mafioso, e non ha neanche goduto di quella relativa autonomia di una creazione e trasmissione culturale propria come è accaduto storicamente a Napoli, dove il sottoproletariato era un proletariato marginale che si è fatto vanto del suo analfabetismo dando alla città la sua voce più vera, per mezzo di una sorta di specializzazione artistica in due campi specifici che ha magistralmente dissodato, il teatro e la canzone.

A Palermo, il teatro è stato, in un passato lontano, la vastasata – i cui ultimi eredi sono in ordine di tempo Franchi e Ingrassia, Scaldati, Ciprì e Maresco, Roberta Torre e Emma medesima (fuori Palermo, nei messinesi Scimone e Sframeli, anche se in qualche modo “recuperati” nel flusso del teatro ufficiale o semiufficiale). Una corona di esperienze incandescente, un arco di luminaria da estivo festino per la meravigliosa, eccezionale visibilità dei suoi risultati, ma pur sempre dentro un’ispirazione di barocca cupezza, disperata anche nell’affermazione di una repressa o deviata vitalità. Ma sino a loro, sino alla “scoperta” e alla rivitalizzazione colta di questa tradizione operata per primo da Franco Scaldati, quella tradizione non ha lasciato traccia negli artisti della città e dell’isola, ed è rimasta nell’ombra, senza scatto ed eco, per due secoli e più, se non forse nei vicoli e nelle baracche della città capitale. (La tradizione dei pupi è stata anzitutto contadina e provinciale, come quella dei contastorie e dei cantastorie.) Un sottoproletariato e un proletariato di poca storia, di storia soffocata, di poca voce, di voce clandestina. Non è un caso, infine, che la tradizione canora palermitana e siciliana sia tuttora di imitazione di quella napoletana, al punto di mutuarne melodia e lingua, negando in questa scelta il proprio volgare. Emma, insomma, non nasce dal nulla, ha radici forti e lontane, e ha commerci forti nel presente, ma con una sua libertà che ricerca l’estremo, l’esasperazione di una teatralità dirompente, genialmente sofferta e gridata e mimata. Come se un nucleo esplodesse e una reazione se ne sprigionasse: tra atomi compressi dal tempo. O meglio: come se piaghe si aprissero sprigionando sangue e sperma, umori violenti e violentissimi che bensì non trovano e non formano rivoli o corsi che possano aprire all’esterno, che con l’esterno possano scontrarsi o incontrarsi. Uno sbocco che non trovano o che non vogliono trovare, piaghe che non cicatrizzano e su cui, una volta riaperte, tutti gridano gettandovi sale.

Gli “interni” della Trilogia sono un “huis clos” che non si accontenta di esserlo e i cui prigionieri non cessano di sbattere la testa contro i muri, ma più per farsi altro male che per tentare una via di uscita. Questo “huis clos” è la Famiglia nel senso originario del termine e non nel suo senso mafioso o lobbystico e corporativo, pur così importante nella società contemporanea. Di essa, è come se si scavassero qui le origini, la prima base antropologica su cui le altre sono evolute e hanno messo rami e scavato nuove radici. La famiglia delle origini, il nucleo primitivo, la famiglia dell’uomo, la famiglia della salvezza e della condanna, la famiglia da cui siamo protetti e di cui siamo prigionieri.

Mi è sempre apparsa peggio che sciocca l’opinione di chi ha giudicato la Trilogia palermitana di Emma Dante come qualcosa che non ci riguardasse, quasi un prodotto esotico e ritardatario. Sono gli stessi che hanno trovato, per esempio, “vecchio” il film di Chéreau Gabrielle perché parla (ancora! essi dicono) di una coppia borghese “in costume” e cioè di ieri, e non intendono la grandezza del confrontarsi con gli eterni problemi del genere umano, mai risolti, con la condanna di una condizione che ci propone, generazione dopo generazione, gli stessi limiti, le stesse impossibilità, le stesse durezze, o anche le stesse speranze, gli stessi tentativi di sbocco, di progresso, di soluzione. Gli stessi fallimenti, la stessa necessità di cercare aperture vere, possibili. E di cos’altro dovrebbe parlare, di cos’altro ha sempre parlato l’arte? Ma i signori di cui sopra sono quelli che credono il sottoproletariato morto, e la sua lingua, la sua miseria e il suo ostinato, il suo “organico” voler esistere. E che credono Palermo lontana, o anch’essa così mutata da non coneservar più nulla, mettiamo, di arabo e passato, di Istanbul o Calcutta…

E per loro è come se aver superato una certa fase storica e una certa condizione economica debba significare non aver più a che fare con quello che c’è sotto e dietro, con il passato e con i suoi morti e i suoi fantasmi. E se invece questi fantasmi fossero ancora ben vivi nel nostro subconscio, o fossero vite vere altrove, in un mondo in cui non è per niente cambiata la fatica di essere, la fatica di definirsi, la fatica di scegliersi, la fatica di esprimersi? E se il poeta Emma Dante incontrasse nella sua Trilogia i grandi spiriti del teatro necessitato e non di quello di apparenza superficie gioco intruglio esibizione autoreferenzialità e autogratificazione? E incontrasse i grandi spiriti e i grandi sciamani di un teatro che non è solo teatro, come non deve esserlo neanche oggi, che i piccoli spiriti o i privi di spirito (ben diversi dai «poveri di spirito» evangelici) se ne contendono i resti molto mortali e lo scambiano per televisione, per società dello spettacolo, per pubblicità, per non-pensiero e non-cuore, per non-radice e non-visione, per stupido esorcismo del dolore e scandalizzato rifiuto di ogni utopia? La Trilogia di Emma Dante, geniale nelle sue soluzioni, nei suoi attori e nel loro gioco, nella sua tensione, nelle sue ritenzioni e nelle sue deflagrazioni è l’opera di un poeta, ed è uno dei non rari, per fortuna, capolavori del nostro disastrato tempo così scarso di poeti e così ricco di bonzi di retori di merciaioli che si chiamano a volte registi e critici: un tempo disastrato ma ancora, per fortuna, non del tutto avvilito e disarmato.